Personae

11 dicembre 2014 § Lascia un commento

Le tengo in ordine, allineate su degli scaffali, nella stessa stanza dove un grande armadio ad ante scorrevoli conserva i vestiti appropriati per ciascuna di loro. Sono diverse dozzine, e crescono sempre di numero. In media ne confeziono un paio al mese, e se avessi tenuto tutte quelle ormai fuori moda sarebbero centinaia. Periodicamente, invece, faccio una revisione attenta e – con poche eccezioni – elimino quelle che non penso mi capiterà più di usare. Alcune di quelle più antiche, però, sono troppo legate a dei ricordi importanti per essere destinate alla spazzatura: un paio di grandi scatole di cartone nero sul ripiano più alto dell’armadio fanno loro da deposito, o da sepoltura.
Quelle esposte – ma solo per me e per qualche amico con cui intuisco affinità – le esamino di frequente con attenzione, le spolvero, le ritocco, che siano sempre pronte all’uso. Non è sempre possibile, infatti, prevedere quando possano essere utili o addirittura indispensabili: indossare la maschera sbagliata in un’occasione importante sarebbe ovviamente motivo di serio imbarazzo.
Se le si guarda una a una, sorprende il fatto che quasi nessuna assomigli all’immagine di me che comunemente appare. E’ un fatto naturale: quasi mai indosso una sola maschera alla volta e l’abilità nel costruirle adattabili una all’altra è la più ricercata per i fabbricanti. La sovrapposizione genera un’immagine composita, e le espressioni del viso esaltano ora una ora l’altra di quelle indossate in quel momento, mostrando la compresenza – armoniosa o contraddittoria – delle mie diverse anime, delle diverse anime di tutti.
Ho parlato di fabbricanti, ma in realtà, dopo un po’ di pratica ognuno impara a farsele da sole. Sono molto bravo, in questo; molti mi invidiano, molti sono gelosi. Un fabbricante voleva perfino assumermi in bottega. Ma no, ho declinato gentilmente: faccio un altro lavoro, non ho tempo per creare delle maschere per altri.
Per le mie, invece, ho dedizione. E’ indispensabile averne. Ogni maschera è il frutto di lunghe riflessioni sui contesti e sui propri atteggiamenti, di studio della personalità, della psicologia personale. E poi va modellata, fusa, rifinita, lucidata e dipinta. Un gran lavoro, specie se si pensa che alcune servono solo una o due volte, poi restano immobili e pazienti sullo scaffale anche per anni o per sempre; non capita più che siano utili.
Ne possiedo di molto belle: una ha i lineamenti duri, tagliati quasi geometricamente, come una statua stilizzata; un’altra è abbronzata e sorridente, quasi da attore hollywoodiano; un’altra ancora – che ho indossato solo poche volte – è incorniciata di riccioli. Ma quelle che prediligo davvero sono quelle in cui a caratterizzare l’aspetto sono delle sfumature, la piega delle labbra, una ruga fuggevole sulla fronte, gli occhi appena socchiusi.
Ho detto che quasi nessuna mi assomiglia davvero, ma è una frase impropria, al limite dell’assurdo. E’ ben noto, almeno a me, il fatto che è dalla combinazione dei camuffamenti – di quelli che i più ingenui chiamano così – che risulta la fisionomia pubblica di ciascuno di noi.
Una volta ho provato a guardarmi allo specchio, la sera, senza alcun trucco: i lineamenti erano così sfumati e labili che ne ho avuto forte disagio, forse paura. Ho subito indossato la maschera della solitudine, una delle poche che si usano singolarmente, e sono andato a letto, a luci spente.
Un altro interessante e più complesso esperimento l’ho provato solo di recente: ho fotografato una per una la trentina di maschere che uso in questa epoca della mia vita, poi ho sovrapposto tutte le immagini, cosa che non si fa quasi mai, volta per volta è una sola che stabilisce l’aspetto prevalente di quel momento o di quel giorno. Quando però ho guardato l’immagine finale non ho provato disagio o timore: il viso che mi fissava dalla carta lucida ancora umida era quello in cui mi riconosco davvero ogni giorno.

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